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domenica 19 febbraio 2012

"Odore."

Ne ebbi un primo avvertimento mentre mi mettevo la gelatina nei capelli e sforzandomi sorridevo allo specchio.
Faccio stretching facciale ogni mattina, preparo così la bocca a starsene sorridente per tutto il giorno.
Sentivo i muscoli affaticati, gli occhi pesanti, freddo alle ossa, nausea e vertigini.
Ma nulla di strano. Quando vengono quei cani dei miei amici a cena si fa sempre mattina e si sa, in gruppo, si è tutti più inclini all'abuso.
Quel disgraziato di Nino, nel fine settimana, era stato con la sua tipa in un monastero ed aveva comprato uno strano liquore al sapore d'abete. Mica una bottiglia, sei. E ce le siamo bevute tutte.
Eravamo in quattro.
Normale sentirsi poco bene il giorno dopo.
Ma c'era odore di nuovo quella mattina. Ne ero certo.
Non era odore di scarpa nuova, né di macchina nuova, né di libro nuovo.
C'era profumo di vita nuova.
Quella mattina, sbadigliavo e sorridevo allo specchio guardandomi i denti che mi sembravano più storti del solito.
Il nuovo dentifricio alla menta mi lasciò un alito stranamente piacevole.
Di solito, mi puzza il fiato e me ne vergogno. Durante il giorno uso le caramelle al mentono ed eucalipto, mi sembrano le uniche capaci di alleggerirmi l'alito.
L'odore di nuovo non era dovuto al nuovo dentifricio, ci pensai, ma non era quello.
Preparai il caffè e tutto sembrò identico a sempre, gli stessi gradi per la casa, la stessa poca luce, la solita pisciata del cane sul pavimento al lato sinistro del divano, i calzini uno qua e uno là e bicchieri un po' dappertutto. E lo stesso tanfo di posacenere che aveva ormai impregnato le tende e la carta da parati a righine verdi.
Tutto, insomma, come ogni santa mattina.
Tutto tranne qualche buco in più nel muro vicino al bersaglio per le freccette che mio cugino mi regalò lo scorso Natale perché io mi allenassi ed andassi poi con lui a fare i tornei.
Ma non ci andrò mai, glielo dissi subito e glielo ripeto ogni volta che varca la porta di casa mia ed osserva i dardi piantati sul bersaglio.
Da tre giorni, c'era la neve in ogni luogo che la mia vista potesse vedere. Tanta neve. Mai vista tanta così in vita mia.
Affacciandomi alla finestra, vidi un tizio dal buffo cappello col paraorecchie in pelliccia di coniglio che, con gesti ampi, sembrava intento a seminare qualcosa davanti a sé.
Lo guardai meglio, aveva la sigaretta ficcata nella bocca, un giubbotto arancione, delle scarpe da montagna e dei guanti da lavoro. Spargeva sale sul marciapiede.
Mi venne in mente il mio amico Carmelo, il quale era stato tutta la sera a spargere consigli a tutti noi.
Ad un certo punto mi fece uggia e gli dissi di non cagare il cazzo con le sue fesserie e di andare a farsi prete o diacono se voleva andare in giro per le case a dire che “quello sì!” e “quello no!”, o cose come “sbagli a fare così”, oppure “dovresti provare a fare in questa maniera”. Odioso davvero.
Bevvi il caffè restando inebetito ad osservare l'uomo del sale. Un vero professionista.
Mi calzai gli scarponi e scesi le scale con due sacchetti pieni di bottiglie nella mano sinistra.
Nella mano destra il guinzaglio del cane ed un libro di Joice che un tizio che studia con me mi aveva consigliato e che poi ho comprato via internet risparmiando qualcosa rispetto a quanto lo avrei pagato in libreria. Ma ancora non l'ho letto e se ne sta nell'armadietto del lavoro insieme a grembiuli e cappelli da salumiere.
Il cane mi trascinava con forza per andare ad orinare. Nell'androne rischiai di cadere.
Non lo sciolgo mai, il cane. Lo trascino col guinzaglio.
Povera bestia. Povero Teo.
Da quando quel topo del mio jack russell attaccò la pelliccia di visone di una vecchia signora, sbranandogliela tutta, ha perduto la mia fiducia.
In un certo senso lo comprendo, credo l'abbia fatto per dare una lezione a quella strega. Se vedessi in giro qualcuno con una pelliccia di pelle di umano addosso, probabilmente farei la stessa cosa.
Insomma, però quella sua bravata m'è costata un botto di soldi. Pensai anche di vendere un rene per risarcire la donna dagli orecchini dorati che, quando mangio tanto, la sogno ancora mentre sbraita e mette su una tragedia con gli altri clienti del bar che fanno il coro e muovono le mani a tempo. Una vera tragedia.
Peccato che mi pietrificai mentre mi vociava sul viso, sennò avrei potuto darle un destro e lasciala a terra col mio cane a strapparle il visone. Lo dico per dire, non ne sarei capace.
Sono rimasto traumatizzato da quell'episodio.
Dovrei farmi vedere da qualcuno capace, non posso essere terrorizzato dalle donne colla pelliccia. Credo sia abbastanza semplice come problema, con poche sedute dovrei uscirne, ma forse anche senza.
Un altro problema, è che ho paura ad uscire di notte, da solo.
Anche Teo, la sera, lo lascio pisciare in casa.
Da quando un gruppo di naziskin mi spaccò di botte, alcuni anni fa, ho paura ad uscire.
Una di quelle carogne con la testa rasata so anche come si chiama: Paolo Bassi.
E so anche dove lavora e dove abita.
Questo racconto parla di Lui.
Mi picchiarono per divertimento, non gli avevo fatto nulla di male, erano ubriachi e forse gli aveva dato noia che fossi passato davanti al loro pub, lo Skrewdriver.
Sapevo una sega che quello era un posto da evitare, non sapevo cosa fosse lo Skrewdriver.
Pensavo significasse solo cacciavite. Mi sbagliavo.
Era una sera di febbraio, avevo diciassette anni, a quei tempi uscivo con un certa Sara che aveva due anni più di me.
Sara abitava vicino allo Skrewdriver, i suoi genitori non erano mai in casa e la sera andavo sempre da lei. Poteva dirmelo quella troia di non passare da lì, poteva dirmi di passare da via Corsi e non da via Pananti.
Mi fecero il viso viola quei bastardi, mi slogarono una spalla, mi ruppero tre costole ed il polso destro.
Ricordo le loro Dc. Martens coi lacci bianchi che mi colpivano il petto, i loro jeans arricciati, quelle bretelle che si muovevano nell'aria fredda della notte più fredda della mia vita, per poi sentirle frustare la mia testa ed il mio corpo dolorante.
Ricordo i loro tatuaggi, quelle ragnatele ai gomiti (erano a mezze maniche nonostante fosse inverno), volti di cane, rose, cuori, spade, rondini.
Tornai a casa e sembravo un altro. Non ce la feci ad arrivare con le mie gambe, mi ci portò un tizio che mi trovò mezzo morto vicino alla sua Panda. Gliela insanguinai tutta. Voleva portarmi all'ospedale ma poi lo convinsi a portarmi a casa. Salii le scale con una lentezza lancinante.
Mia madre si svegliò perché mi sentì piangere in bagno, non riuscivo a spogliarmi, mi guardò e dopo mille domande mi portò di forza all'ospedale.
Scesi le scale sorreggendomi da un lato al corrimano e dall'altro a mia madre.
Ero messo male.
Mi fecero una tac, m'ingessarono il polso, e poi mi tennero in osservazione per tutta la notte.
Parlavano di denunce, volevano sapere chi era stato a ridurmi in quel modo, ma io non dissi nulla. Mia madre insistette per qualche tempo ma poi si arrese.
Ora lo sa.
Conoscevo anche il padre di Paolo Bassi, Settimio, sapevo chi era ma non lo salutavo.
E Sara la chiamo troia perché l'ho beccata a fare un pompino al suo ex.
Una vera troia con la t maiuscola.
Gettai il sudicio nel cassonetto, e poi m'addentrai nel cortine per andare al lavoro.
L'aria fredda e pulita mi fece sentire meglio.
Lasciavo le mie impronte sulla neve ghiacciata, Teo anche. La neve gli dava quasi al muso.
Erano le otto e quarantacinque. Dovrei entrare alle otto, ma arrivo quasi sempre verso le nove. Mi resta più comodo.
Entrato in bottega, i colori accesi della frutta e della verdura mi fecero venire le vertigini più di quanto già non le avessi. L'odore del sugo sul fuoco e della polenta, mi strinsero lo stomaco e ebbi un insulto di vomito che sapeva d'abete. Maledissi Nino.
Quella sorda di mia nonna (comprensibile, ha 83 anni ed odia l'apparecchio acustico), se ne stava aggobbita colla sua vestaglia celeste a togliere le foglie vecchie dall'insalata e bisbigliava qualcosa a bassa voce.
Pensai che stesse dicendo il rosario, forse era così.
È alta poco più di un metro mia nonna, grassoccia, ha i capelli corti e sempre pettinati, gli occhi verdi come mio padre ed è simpatica.
Le andai vicino e le dissi -buongiorno!
Mio padre sbucò dalla cucina col mestolo della polenta in mano e prima ancora che mi togliessi il giubbotto e mandassi il cane in giardino, mi mandò a quel paese per il ritardo. Ma lo fece sorridendo e capii che non era incazzato.
Mia nonna alzò lo sguardo e lo riabbassò in un istante prima ancora che potessi vedere che colore di rossetto avesse sulle sue graziose labbra grinzose.
Verso le undici consegnai la spesa all'antipaticissima signora Costi (non mi lascia mai mezzo euro di mancia) e abita in un palazzo nel quale c'è sempre puzzo o di fritto o di minestrone.
Poi stetti in bottega a servire gente col mio sorriso splendente stampato sulla bocca.
Sono un professionista, alleno la bocca ogni mattina.
La gente viene a fare la spesa da me perché dicono che trasmetto serenità. Dovrò spiegargli, un giorno, che sono un attore nato.
E poi mi diverto con tutte quelle vecchiette (età media 70 anni), sorrido anche per questo.
Improvvisamente, accompagnato dal suono delle campane che rintoccano il mezzogiorno, sentii nuovamente quell'odore. Profumo di nuovo, di vita nuova.
Lo respirai a pieni polmoni, allargai le braccia come dopo una corsa e chiusi gli occhi per gustarlo.
Mi vene in mente la notte in cui fui pestato dalle teste rasate, mi venne in mente Paolo Bassi.
Tutte le volte che l'ho rivisto, ed è capitato spesso, sempre vestito di nero come le olive per fare il pollo alla cacciatora, ho sempre avuto timore di lui.
Però, una volta ho sognato che andavamo insieme a pescare, soli io e lui, ed eravamo amici.
I vetri del negozio erano appannati ed aprii la porta per vedere all'esterno.
In lontananza, vidi un tizio col cappotto giallo ed un berretto bianco. Camminava a testa china sulla neve che nel frattempo si era un po' sciolta.
Aveva una camminata che mi ricordava qualcuno.
Non diedi troppo peso alla cosa, ma seguii con lo sguardo quella figura che poi scomparve come inghiottita dalle case dal tetto innevato e dai balconi senza fiori.
Vennero pochi clienti quella mattina, Teo stette per tutto il tempo nella sua cuccia e lo vidi uscire solo un paio di volte per ingiallire la neve.
Finii di lavorare e non ero stanco.
Andai a fare due passi verso il centro.
Il mio cane decise di defecare proprio davanti agli annunci mortuari nei giardinetti innevati di via Bonaparte. Alzai lo sguardo e lessi:
Lunedì 12 Febbraio assistito amorevolmente dai suoi cari cristianamente è mancato
SETTIMIO
BASSI.
Di anni 67.
Ne danno il doloroso annuncio i figlio PAOLO e FRANCO, i nipoti MICHELE e GIULIA , il fratello PIERO, i cognati, i nipoti, la suocera e i parenti tutti. I funerali avranno luogo Giovedì 15 FEBBRAIO alle ore 10.00 nella Chiesa di San Lorenzo ove il caro Settimio arriverà dall'ospedale. Dopo le esequie si proseguirà per il cimitero locale. Il Santo Rosario verrà recitato Mercoledì 14 Febbraio alle ore 17.30 in Cappellina.

La scorsa settimana, era morto il padre di Paolo.
Mi dispiacque.
Camminai pensando a non mi ricordo cosa, avevo la testa vuota.
La neve sporca ai lati delle strade aveva strane sfumature marroni.
Poi mi sbucò davanti quell'uomo col cappello bianco e il giubbotto giallo.
Fui avvolto da un'incantevole fragranza che sapeva di fiori e placenta, di latte e meraviglia, morbida come il cachemire, leggera e confortevole come il fuoco nelle case di campagna mentre fuori piove.
Il mio cane iniziò ad abbaiare insistentemente, poi si distese per terra e voltò la pancia verso il cielo.
Lo avevo sempre visto col bomber nero e la coppola in testa, jeans stretti e stivaletti neri.
Non lo riconobbi subito, ma quella camminata era la sua, quegli occhi erano i suoi.
Era Paolo Bassi.
Si era tolto il nero d'addosso e ne aveva tolto un po' anche al mondo.
Pensai che la morte di un caro costringe a guardarsi dentro, costringe a riflettere, separa il bene dal male, purifica l'anima, costringe gli uomini a diventare uomini nuovi.
Mi piace pensare che Settimio abbia scelto non di rinascere da qualche altra parte del mondo, ma abbia deciso di dare un profumo diverso alla vita di suo figlio.
Spero sia davvero così.
Resta il fatto che mentre mi mettevo la gelatina nei capelli, appena sveglio dopo una cena tra amici,
ne abbi un primo avvertimento.
Poi tutto mi fu chiaro appena lo vidi, era un uomo nuovo che profumava di vita nuova.
Forse diventeremo amici, forse andremo insieme a pescare, forse la sera porterò fuori il cane.

Stasera ho scritto questa storia, è la storia di un ragazzo che sa di nuovo.

lunedì 31 ottobre 2011

"La fine del mondo."


-Mi prendi per il culo? Dico io, ti sembra questo il momento di scherzare?
Provavo in tutti i modi a calmarlo e farlo ragionare, ma non mi dava ascolto.
Continuava a chiedermi se lo stavo prendevo per il culo e se mi sembrava quello il momento di scherzare.
Santo Dio, avrei voluto mettergli le mani addosso, picchiarlo e farlo svenire per non sentire più quella sua ansimante voce da pazzo sclerotico che ormai m'era entrata nella testa.
-Dai, rilassati un minuto ed ascoltami, non sta succedendo nulla, stai calmo e siediti.
Camminava per la casa freneticamente ed apriva con titubanza la tenda del soggiorno per vedere cosa stesse succedendo fuori.
Il paesaggio era buio, tutti i cani abbaiavano, gli uccelli cinguettavano e non c'era traccia di un passante per la strada.
-É la fine del mondo, io non voglio morire adesso.
-Non è la fine di nulla, è una cosa normale, succede di rado ma succede, stai tranquillo.
-Mi prendi per il culo?
Mio cugino solitamente faceva il grosso, si vantava di scopare più di ogni ragazzo della sua età, fumava per farsi vedere in giro e sembrare un grande, ma in realtà era un cacasotto di quelli numero uno.
Non riusciva a tranquillizzarsi, gli tremavano le mani e quel suo tic di grattarsi la testa nei momenti di panico divenne persistente.
Credo si sia sbucciato la testa quella mattina.
-Perché questo buio alle undici del mattino? Perché i cani sembrano impazziti? É la fine, me lo sento, moriremo tutti.
-La smetti di dire stronzate? Tra poco tutto tornerà alla normalità, anzi già questo è normale, ora basta con questa storia stupida e siediti.
-Il giorno del giudizio è arrivato.
-Sì, è la fine del mondo.
Gli dissi così per farlo contento e finalmente la finì di camminare senza senso per il salotto, paradossalmente, non so perché, in qualche momento si tranquillizzò.
Non mi lasciò finire di parlare e corse a nascondersi in cantina passando dalla scala interna della cucina.
Io avevo sedici anni e mio cugino diciotto.
Era un tipo secco e lungo infatti lo chiamavano “stecco” di soprannome, adesso ha trent'anni e la fissazione per la palestra l'ha fatto diventare un armadio.
É enorme, sembra un armadio di quelli che hanno nelle camere i genitori e dentro i quali c'è posto per la roba invernale e tutto, lenzuoli ed asciugamani puliti per tutta la famiglia compresi.
Anche per quei giubbotti usati e regalati da qualche parente che ancora non vuoi buttare perché pensi che in un futuro potrebbero tornare di moda.
Insomma, il nome è rimasto e gli amici lo chiamano ancora “stecco”.
Lo seguii in cantina e si sedette sulla poltrona della povera nonna ormai morta.
Mi chiese una sigaretta.
-Non fumo e non ce ne sono in casa di sigarette- risposi io facendo spallucce.
Iniziò a piangere disperatamente.
-Avrei voluto conoscere meglio mio padre, essere stato un bravo ragazzo, non aver rubato nel bar del Tagliaferri, non aver tradito Carla per Giada ed essere andato a messa ogni domenica come voleva nonna.
Aveva una voce affranta, dispiaciuta, angosciata e costernata mentre me lo diceva.
Accesi la luce della cantina con l'interruttore alla mia sinistra, il suo volto era mesto, rigato di lacrime e i suoi occhi velati di terrore, guardava un punto indefinito del pavimento sotto le sue ciabatte della fila.
Porco cane se era avvilito!
-Puoi rimediare, stasera dici a tuo padre che lo vuoi “conoscere”, ti presenti dal Tagliaferri e gli dici che hai rubato, domenica vai alla messa e poi dici a Carla che la ami.
Gli dissi io sorridendo, ero seduto sui primi scalini in vetta alle scale.
-Il domani non ci sarà, quel che è stato è stato, è giunta la fine, non c'è più tempo.
Poi, singhiozzando, mi mormorò:-Pantani però mi ha regalato delle belle emozioni, il Pirata m'è entrato nel cuore con le sue volate, l'anno scorso giro e tour, peccato per quest'anno.
-Tranquillizzati, vieni su con me e beviamoci qualcosa.
Abbracciai mio cugino che tremava come un pulcino bagnato e lo portai in salotto, stranamente mi dette ascolto.
Ci bevemmo un coca poi lentamente un po' di luce penetrò dalle tende ed illuminò la stanza.
Corremmo alla finestra e guardammo fuori, il sole era tornato e sembrava aver sconfitto le tenebre.
Mio cugino mi guardò e sorrise, capii che la morte gli faceva paura.
Era il 1999, l'anno di Benigni come miglior attore protagonista, dell'esclusione di Pantani dal giro d'Italia, della beatificazione di Padre Pio, del primo dei sette tour de France vinti da Amstrong, della vittoria del campionato del mitico Milan di Zaccheroni.
Fu anche l'anno dell'eclissi totale di sole, l'estate in cui mio cugino pensò che fosse la fine del mondo.
Fu l'anno in cui iniziai a volergli bene.

mercoledì 20 luglio 2011

"La mosca"

Passa davanti al mio volto stanco, nel buio argenteo di questa notte di luglio e si muove scattando a zig zag. Con la mano provo a prenderla, la manco, sono lento e lei è sufficientemente desiderosa di libertà da sfuggirmi.
Constatavo semplicemente quanto fosse attaccata alla vita.
Lo è quanto basta, sono felice per lei.
Quella mosca potrà ancora vivere.
In realtà non volevo prenderla, sono già la vittima di quello che ero e non voglio uccidere nuovamente, sarebbe la mia quinta vittima e anche se in natura non ci sono processi e reclusioni, non voglio ucciderla punto e basta.
Forse, potrei farlo senza problemi, senza provare rimpianti, potrei farlo e basta, magari giustificandomi dietro la frustrazione che mi ammanta da ormai tanto, troppo tempo.
Ma ho smesso di uccidere.
Non sono più un assassino.
Sento quelle urla in fondo al corridoio ma ormai cerco di non badarci molto, ci sono abituato.
Un frocio viene conteso tra due che si propongono di fargli da protettore e scoppiano continue risse.
Urla, lamenti laceranti, pianti, spasimi che logorano.
Ho la barba lunga, non ho intenzione di radermi fin che vivrò, mi sento uno di quei santoni indiani che si incontrano a quel crogiolo di matti sulle sponde del Gange, l'ho letto su di un libro trovato giù in biblioteca.
La lascio crescere, la barba, per sentirmi protetto dal mondo e far dire in giro che sono matto, mi difendo così qui dentro, con la maschera del folle.
Sono tutti matti qui dentro, cerco di mimetizzarmi, di confondermi tra di loro.
Mi sono adattato, credo sia spirito di sopravvivenza.
Dalle 13 alle 15.30, in quella che in gergo chiamano “ora d'aria”, nessuno mi parla, sono il matto che ha ucciso e tutti mi stanno distanti, ed io certamente non vado a cercarli.
Solo un tale grassissimo si avvicina a me per chiedermi sigarette, è un fottuto pazzo di quelli veri e non gli rispondo neanche più.
Non ho mai fumato e lui lo sa, in realtà mi fa pena perché lo imbottiscono di merda.
L'unica cosa buona che sono riuscito a fare per me stesso è stata questa, tenermi gli uomini a distanza e non fumare.
Anche a mangiare sono solo, alle 11.30 la guardia mi chiama per il pranzo e mi metto in disparte senza incrociare lo sguardo di nessuno, forse sono gli altri a tenersi lontani da me, non io da loro.
Forse mi temono.
Un ragazzo che ora spaccia coca, lo conosco da sempre, ma non ho mai parlato con lui.
Credo che anche lui sia un assassino, o almeno lo sia stato.
Ho anche preso il vizio di dondolarmi continuamente, di muovere il busto avanti e indietro, come gli autistici, come un vero matto.
Lo faccio per essere ciò che non sono, per proteggere me stesso.
Ho un pensiero persistente in questa mia testa da bastardo in questa notte di luglio, non riesco a perdonare a me stesso che è finita, che la mia vita è letteralmente finita, e forse, non ha mai avuto il tempo di iniziare veramente.
Distrutta e sfregiata da queste mie mani da uomo che non ha avuto il tempo per essere giovane.
Questo mio presente sarà il mio futuro, è dannoso per me stesso credere che prima o poi potrò uscire e tornare finalmente libero di godere il mio tempo restante prima della fine, quella del corpo intendo, la mia anima è ormai perita nella muffa e nel salnitro che riempie queste lerce pareti colorate in un bianco che adesso è solo un color muffa chiazzato qua e là da un bianco che non intende lasciare il suo posto al perimento.
Sono la personificazione di uno di quie morti che le mie mani da ragazzino hanno stupidamente provocato.
Mi guardo le mani e sono ora mani da uomo.
Scorre il tempo, batte, segna con rughe e abbandoni.
Non ho più rivisto nessuno dei miei vecchi amici, solo mia madre e mia sorella ogni tanto passano a farmi una visita.
Invecchiato, sono invecchiato molto, la mia vita si è consumata qui dentro, in questo buco fetido a nord di Firenze.
Anche mia madre e mia sorella sono invecchiate e non ho potuto godere giorno per giorno il loro incanutire.
Sono solo come un cane, c'era un cane nella mia campagna che viveva solo in disparte, dormiva solitario tra i boschi, io la chiamavo Solo, veniva solamente per mangiare, ma non era del tutto solo lui, la sua era una scelta, un po' come la mia, ma solo un po'.
Solo, era solo come lo sono io, lui libero di errare nei boschi ed io nella mia stanza e c'è una bella differenza.
Cambierei il mio essere solo con l'essere solo di quel cane, ciecamente la cambierei.
Questa è una di quelle notti in cui scrivo senza pensare, lasciando al foglio e alla penna la possibilità di trafiggermi il corpo e scrutarmi l'anima, sbatterla e scuoterla fino a farla lacrimare, finalmente ravvivarla, provare ad accenderla per un poco, per smetterla di parlare mentalmente con il lavandino di ceramica che occupa l'angolo della parete sinistra sotto la minuscola finestrina dalla quale un po' di luce, facendosi forza, riesce ad entrare dalle sbarre, nei giorni di sole.
19 anni, 3 mesi, 8 giorni, 6 ore e qualche minuto.
Rinchiuso per un crimine commesso da un ragazzo che non sono più io.
Ora, sono solo il prodotto di quello che ero.
Ora, sono solo un finto matto che non accetta se stesso.
Avevo solo 14 anni quando sono entrato, adesso ne ho 33 e non sono più un uomo, sono un corpo che ascolta quel bastardo del tempo trascorrere inesorabile, tempo che mi lascia tra le mani il nulla che ho vissuto, il vuoto che mi distrugge.
Batte, continua a battere, insistentemente lui batte.
Compromessi, credo non sia possibile averne con lui.
Si arresta così, per inganno, solo in una di quelle strane notti in cui riesco a dormire.
Raramente riesco a dormire, in inverno è freddo, in estate è caldo, il cesso perde acqua continuamente, la stanza è insopportabilmente umida e schifosa, è lercia e tremendamente malsana.
Pagherò, sto pagando tutto, in parte ho già pagato, ma sono errori che marcano e impregnano lo spirito.
Non posso far altro che pagare e provare a dimenticare.
Non si dimentica, di prova semplicemente ad accettare ma non si dimentica, si convive con gli errori che diventano i maggiori nemici.
Vita sprecata la mia.
La televisione non l'ho voluta, vedere quello che succede fuori mi rende maledettamente più triste di quello che già sono.
Non esco mai sul ballatoio, c'è quel cazzo di marchingegno che rintocca i secondi, osservandolo, il tempo sembra scorrere ancora più lentamente.
Perché se ci penso, quello scorre piano ma costante, è questa la sua tecnica, il suo stratagemma per non essere mai stanco e fotterci tutti.
Le giornate sono infinite, lunghissime, interminabili, sono come le gocce del lavandino che perde acqua da sempre, ticchettano le gocce come lo fanno i secondi.
Mi guardo e vedo un uomo, un uomo che si chiede perché il tempo sia passato, se la pace in questa sua vita la troverà solo da morto.
Mi tengono compagnia i libri, ne leggo molti.
Caro tempo infame, sono un maledetto carcerato, forse morirò qua dentro se deciderai che sarà il mio tempo.
In molti, si sono ammazzati, io ci penso spesso.
Un tizio sano di mente, che ha capito che faccio finta di essere matto, vuole che partecipi ai loro corsi di pittura.
Prima o poi, spero di accettare questa mia situazione e perdonare me stesso per quello che ho fatto e ricominciare, o iniziare, finalmente,  a “vivere”.
Sarò libero tra ventidue anni e in questa notte di luglio, ammiro fortemente quella mosca tanto attaccata alla vita.
Forse, domani andrò a pitturare qualcosa, così, per ingannare il tempo, perché quella mosca mi ha dato un briciolo di felicità.